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- La società del XXI secolo di Davide Bennato, edito da Laterza, è una mappa per orientarsi nella comprensione del mondo contemporaneo.
- L’autore, in questa intervista, afferma che «siamo sempre meno solo persone e sempre più persone aiutate dalle tecnologie».
- Per Bennato, l’intelligenza artificiale non è tanto una tecnologia, quanto piuttosto un attore sociale.
Noi siamo il nostro profilo Facebook? Le intelligenze artificiali sono tecnologie o soggetti sociali? Com’è possibile che il bitcoin abbia creato una crisi in Kazakistan? Come ha fatto un chatbot su Twitter ad aver imparato frasi razziste, violente e antisemite senza bisogno di programmazione?
Davide Bennato prova a rispondere a queste e altre domande nel suo ultimo libro, La società del XXI secolo. Persona, dati tecnologie,pubblicato da Laterza nel 2024. Docente all’Università di Catania di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Sociologia dei media digitali e Sociologia digitale, Bennato accetta di buon grado di dialogare attorno ai contenuti del suo volume. «Il libro nasce da una doppia esigenza – spiega -: la prima era quella di fare il punto sul cambiamento sociale che è avvenuto negli ultimi vent’anni alla luce dei grandi sconvolgimenti legati soprattutto, ma non solo, alla tecnologia. L’altro obiettivo era quello di creare uno strumento che potesse essere utile per orientarsi nel mondo contemporaneo. In questo senso, l’ho pensato anche per i miei studenti, in particolare per quelli che hanno già fatto un primo ciclo di studi in Sociologia e vogliono approfondire alcune dinamiche più specifiche».
Una funzione didattica che però non va intesa in maniera didascalica, tiene a precisare lo studioso. Tant’è vero che il linguaggio scelto non indulge in forme accademiche che potrebbero rendere la lettura ostica ai più.
Che tipo di accoglienza ha avuto finora il suo libro?
«Quando lo presento, in genere ironizzo sul fatto che il titolo è piuttosto altisonante, potrebbe sembrare quasi un atto di hybris. In realtà, il senso è progettuale, cioè cerchiamo di capire il XXI secolo dalla prospettiva delle tecnologie digitali, visto che dati, algoritmi e intelligenza artificiale sono diventati sempre più importanti. In questa prospettiva ho trovato un’ampia corrispondenza non solo in colleghi sociologi, ma anche in molti altri che si occupano di discipline come letteratura e filosofia. Da più parti il libro è stato poi accolto come un ottimo modo per problematizzare il mondo contemporaneo e per porre in questione quello che siamo diventati dopo la pandemia».
Vale a dire?
«Nel libro scrivo che la pandemia è stato il più grande esperimento sociale del XXI secolo, perché abbiamo dovuto vivere in condizioni esistenziali assolutamente nuove. Molti lettori perciò mi hanno detto che il libro è stato un modo per riflettere criticamente sulla pandemia. In realtà a me serviva più che altro come strategia argomentativa. Per questo nel libro propongo molti casi studio presi dalla cronaca e utilizzo l’immaginario cinematografico. Proprio per descrivere degli scenari che altrimenti sarebbe complesso raccontare».
La pandemia è certamente un tema che ci tocca tutti. Ma ce n’è un altro, più recente, a cui nessuno può sottrarsi. Quello dell’intelligenza artificiale o AI…
«In realtà nel libro parlo solo di alcuni aspetti dell’intelligenza artificiale, non prendo di petto l’argomento, perché il volume è già ricco di riferimenti su dati e algoritmi. Il tassello dell’intelligenza artificiale rischiava di trasformarlo in una sorta di enciclopedia del contemporaneo. La società del XXI secolo invece è più un una mappa per orientarsi, in cui si parla sì di intelligenza artificiale, ma non in maniera sistematica. Mi ripropongo di affrontare il cambiamento sociale e culturale dell’intelligenza artificiale in un testo a parte».
Nell’attesa, qual l’idea che si è fatto dell’AI?
«Secondo me, l’intelligenza artificiale non è da considerarsi una tecnologia. La mia idea è che l’intelligenza artificiale debba essere considerato un attore sociale, cioè qualcosa che agisce all’interno di un contesto sociale e la cui interazione ha delle conseguenze».
Perché?
«Perché l’intelligenza artificiale simula competenze umane: il linguaggio, la capacità di produrre immagini, la capacità di sostenere i professionisti. Per fare questo, sembra che ci siano intelligenze artificiali, come i chatbot in ambito marketing, che fanno finta di essere persone. Motivo per cui chiamo queste intelligenze artificiali “mimetiche”, da mimesi. Il fatto che ci sia un software che interagisce come noi, ma non è un essere umano, fa sì che questo software sia un soggetto sociale. Ecco perché la società del XXI secolo è profondamente diversa da quella del XX secolo quando gli unici soggetti sociali erano gli individui, le organizzazioni e, a livello più esteso, la società politica, la società culturale e la società intesa nel senso più ampio».
La lettura dei fenomeni sociali, contenuta nella sua opera, è destinata a permanere nel tempo o rischia di diventare presto superata?
«Se mi passa una battuta, posso dire che il mio libro è robusto nella vision, ma deve lavorare meglio sulla mission, nel senso che sono dell’avviso che l’arco di trasformazione della società contemporanea sia piuttosto ben descritto. Semmai ho qualche dubbio su alcuni passaggi di questa visione del futuro. Ma, poiché da accademico mi affido alle ricerche scientifiche in questo settore, le ricerche su questi su questi temi non sono ancora definitive. Mi sono affidato a una letteratura piuttosto classica, senza andare in cerca di “esotismo intellettuale”. Grazie a questa classicità ho potuto scrivere il contemporaneo con uno sguardo sul futuro dal punto di vista strategico, ma non dal punto di vista tattico per carenza di studi in materia».
Ma, alla fine, che società è quella del XXI secolo?
«È una società che si sta interrogando su quanto stiamo diventando cyborg».
In che senso?
«Nel senso che siamo sempre meno solo persone e sempre più persone aiutate dalle tecnologie. Siamo abituati a pensare alla tecnologia come a qualcosa che ha a che fare con i chip e i microprocessori. In realtà, anche il linguaggio è una tecnologia. È stato impiegato moltissimo tempo per svilupparlo e le persone trascorrono un sacco di tempo per impararlo. Ciò che ci rende umani è la capacità di negoziare la nostra identità con la tecnologia. Ecco perché la tecnologia non è disumanizzante, anzi. Paradossalmente è umanizzante. Questo lo dicono gli archeologi, quando cercano di ricostruire le civiltà sulla base delle tracce materiali, ma lo diciamo anche noi quando cerchiamo di capire come le persone utilizzano i media. In futuro, lo dirà chi dovrà capire cosa vuol dire essere umani in un momento in cui un oggetto artificiale come l’AI fa finta di essere umano».
Per orientarsi fra testo e contesto
Davide Bennato vanta una ricca produzione scientifica confluita sia in volumi sia in articoli accademici e divulgativi. Sul sito dell’Università di Catania si possono trovare informazioni sul suo curriculum e sulle sue pubblicazioni. Tra i tanti possibili, segnalo l’articolo L’emergere della disinformazione come processo socio-computazionale. Il caso Blue Whale pubblicato a dicembre del 2018 sulla rivista «Problemi dell’informazione». È un contributo di grande spessore per capire cosa c’è dietro uno scoop come quello sui presunti suicidi di giovani alle prese con test di autolesionismo sempre più estremi dettati dai social.
Le conclusioni a cui giunge il sociologo nel suo articolo sono le seguenti:
In un’epoca di processi sociali veicolati nelle piattaforme digitali coordinate da algoritmi sarà sempre più complicato distinguere una notizia vera da una falsa, perché l’inquinamento da sovraccarico di informazioni rende praticamente indistinguibile l’informazione attendibile da quella inattendibile. Questa situazione potrà essere affrontata solo grazie a una collaborazione fra i soggetti umani e le tecnologie digitali per provare a districarsi all’interno di questo fenomeno.
È un suggerimento che vale per i giornalisti, ma anche per chiunque voglia diventare un cyborg con l’anima.