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- Un giorno nella vita di Abed Salama è l’opera, pubblicato in Italia da Neri Pozza, con cui Nathan Thrall ha vinto il Pulitzer 2024 per la non fiction.
- Pur essendo stato scritto prima del 7 ottobre 2023, permette di capire molto bene l'origine dei tanti problemi che affliggono Israele.
- Le sue pagine ripercorrono la vicenda che costò la vita a sei bambini e un’insegnante a causa di un incidente sulla Jaba Road, una strada a nord-est di Gerusalemme.
Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme, il libro di Nathan Thrall vincitore del premio Pulitzer 2024 per la non fiction, pubblicato in Italia da Neri Pozza con la traduzione di Christian Pastore, è una lettura necessaria per comprendere che cosa sia davvero successo il 7 ottobre 2023. E questo sebbene sia stato scritto prima. Dopo l’attacco di Hamas nei dintorni della Striscia di Gaza, invece, i supporter nostrani di entrambe le fazioni si sono risvegliati. Con uno strano cortocircuito rispetto agli schieramenti che, in teoria, dovrebbero parteggiare per una o per l’altra forza in campo. È la destra che si sente spesso in dovere di prendere le difese di Israele, giudicato senza se e senza ma l’“unico Stato democratico” della regione. La sinistra, anche su questo fronte, si dimostra meno compatta, seppure la tradizionale simpatia accordata alle ragioni dei palestinesi rimanga una costante.
Da qui i continui talk show che, per definizione, lasciano spazio ai discorsi e alle parole di chi ritiene di essere nel giusto. Mentre questo libro in cui i nomi citati sono tutti reali (come tiene a precisare l’autore) non fa alcun discorso, non cerca di convincere nessuno. Racconta semplicemente la storia vera di un bambino morto insieme ad altri sei e alla loro insegnante in un incidente che nel 2012 coinvolse l’autobus su cui viaggiavano e un tir.
Pagine che chiedono l’umiltà del silenzio
Il 7 ottobre 2023 ha innescato la miccia per risalire ai motivi, e soprattutto alle colpe, dei due popoli che si contendono la Terra Santa. Peccato che la retrospettiva storica riesumata per l’occasione continui a essere falsata dalle appartenenze politiche di quanti in Italia propendono per la causa ebrea o per quella araba. Perciò è una prospettiva che serve in qualche maniera a rendere più filopalestinese o filoisraeliano chi già lo era, non certo ad arricchire un dialogo lungi dall’avviarsi.
Del resto, il modello del non-dialogo ormai è diventato una prassi nel mondo dei social, le piazze virtuali per antonomasia dove vige il pieno disinteresse per ciò che l’altro ha da dire su qualsiasi argomento. Le pagine di Thrall al contrario generano un effetto totalmente opposto. Anzitutto chiedono, a chi intende percorrerle sino alla fine, l’umiltà del silenzio. Che è quella che occorre a chi legge e desidera capire. Nel ricostruire la vicenda del 2012, in cui perse la vita il piccolo Milad Salama, spiegano perché è accaduto qualcosa che si poteva evitare sulla Jaba Road, una strada a nord-est di Gerusalemme. Anche le istituzioni del posto hanno cercato di venirne a capo.
Incidente sulla Jaba Road, di chi è la colpa?
Il processo e le indagini di polizia si concentrarono sulla condotta di chi guidava il camion, trascurando le cause più ampie dell’incidente, delle vittime, e il drammatico intervento tardivo dei soccorsi (…). Soccorritori raccontarono ai media israeliani che gli ci era voluto «un po’ di tempo per trovare il luogo esatto, perché era territorio palestinese». Jaba Road però non fa parte del territorio dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndr). Benché a percorrerlo fossero centinaia di migliaia di palestinesi, la strada era sotto il pieno controllo israeliano.
A questo indecoroso scaricabarile non si sottrae la stessa Autorità Nazionale Palestinese. Nella relazione finale scritta da un apposito comitato ministeriale, l’ANP attribuì la «responsabilità morale e legale alla parte israeliana». Conclusioni giudicate grossolane, frettolose e imprecise persino dai genitori palestinesi direttamente interessati.
Le vere origini di questa tragedia e non solo
E dunque? Non ci sono colpevoli? Il j’accuse di Nathan Thrall è circostanziato e va alle vere origini della tragedia:
- deficit cronico di aule a Gerusalemme che spinge i genitori a iscrivere i figli in scuole scarsamente controllate della Cisgiordania;
- muro di separazione e sistema di permessi che obbliga a lunghe e pericolose deviazioni;
- scarsa o nulla manutenzione nelle arterie di collegamento per il transito nord-sud nell’area di Gerusalemme e Ramallah;
- utilizzo dei checkpoint per arginare gli spostamenti dei palestinesi e agevolare il traffico dei coloni nelle ore di punta.
C’è soprattutto una cosa che – a detta dell’autore – nessuna delle commissioni di inchiesta o dei comitati si è premurata di sottolineare:
Nessuno disse che i palestinesi della zona venivano trascurati perché l’obiettivo dello stato ebraico era ridurre la loro presenza a Gerusalemme, il luogo più agognato di Israele.
Per orientarsi fra testo e contesto
Il paradosso di un’opera come questa, da cui si esce esausti per la sua minuziosità e accuratezza, è la sua capacità di instillare un grumo di speranza laddove sembra impossibile averne. A crederci è lo stesso Thrall che nella pagina dei ringraziamenti parla delle tre figlie e del fatto che siano cresciute a Gerusalemme, appena oltre il muro che le separa dai bambini al centro del libro. «Anche se la segregazione non avrà termine nell’arco della vita, ho scritto questo libro con la speranza che venga abbattuta nell’arco della loro» sostiene.
Non è il solo a nutrire questi sentimenti. Appartiene a quegli intellettuali ebrei che continuano a invitare lo Stato di Israele a riflettere su di sé, ad abbandonare una politica scellerata come quella portata avanti da Netanyahu. In Italia, sulla stessa lughezza d’onda si colloca Anna Foa, storica che recentemente ha pubblicato per Laterza Il suicidio di Israele. Anna Foa e Nathan Thrall sono le voci della coscienza di un popolo che è impossibile non ascoltare. Anzi, che è necessario ascoltare, se si vuole capire senza dover imbracciare per forza una bandiera.